Preferixco an este lleidatá sitán al idioma valensiá que a datres filólogos catalanistes que defenen paísos que no existíxen.
Vicente Joaquín Bastús y Carrera: La sabiduría de las naciones, 1862
champouirau, chapurriau, chapurriat, chapurreau, la franja del meu cul, parlem chapurriau, escriure en chapurriau, ortografía chapurriau, gramática chapurriau, lo chapurriau de Aguaviva o Aiguaiva, origen del chapurriau, dicsionari chapurriau, yo parlo chapurriau; chapurriau de Beseit, Matarranya, Matarraña, Litera, Llitera, Mezquín, Mesquí, Caspe, Casp, Aragó, aragonés, Frederic Mistral, Loís Alibèrt, Ribagorça, Ribagorsa, Ribagorza, astí parlem chapurriau, occitan, ocsitá, òc, och, hoc
miércoles, 30 de enero de 2019
Miquel Pereç; La imitacio de Jesuchrist, 1494
Un filólogo serio may negaríe que la primera llengua romanç en tindre literatura en prosa y vers va sé la la valensiana.
Miquel Pereç; La imitacio de Jesuchrist, 1494
Jacob Golden:
Un filólec serio mai negaría que la primera llengua romanç en tindre lliteratura en prosa i vers fon la valenciana.
Miquel Pereç; La imitacio de Jesuchrist, 1494
Jacob Golden:
Un filólec serio mai negaría que la primera llengua romanç en tindre lliteratura en prosa i vers fon la valenciana.
domingo, 27 de enero de 2019
carrechadós, carrejadós
CARREJADÓ, carrejadós, carrechadó, carrechadós, carreyadó, carreyadós
Instrumén compost de dos barres paraleles de dal o baix un metro de llargaria, unides per dos travessés de un pam y mich, que se fique damún de la aubarda de una bestia o animal de cárrega, y servix per a transportá (carrechá) garbes, rames, brema y atres productes agrícoles.
Les coses que se porten van lligades en una corda, que se assegure a les esmosses que tenen les barres llargues del aparato.
CARREJADÓ, CARREJADORA : Lo que carrege o carreche.
Castellá: acarreador, acarreadora.
//
Trineo a Queretes, segóns comente un del poble.
//
carrego
carregues
carregue
carrego
carregues
carregue
carreguem o carregam
carreguéu o carregáu
carreguen
//
carrecho
carreguéu o carregáu
carreguen
//
carrecho
carreches
carreche
carrechem o carrecham
carrechéu o carrecháu
carrechen
carrechéu o carrecháu
carrechen
unidat lingüística catalá provensal
¿De esta unidat lingüística entre catalá y provensal no diuen res la ASCUMA, Ignacio Sorolla Amela (Vidal), franja morta, IEC, AVL, tv3%, à punt, ib3, etc ?
Pregunteutos per qué.
Nicolás M. Serrano; Diccionario universal de la lengua castellana, 1878.
"... la lengua catalana y la provenzal no son dos lenguas distintas, sino una sola, basta leer las poesías de los antiguos poetas provenzales..."
"... la lengua catalana y la provenzal no son dos lenguas distintas, sino una sola, basta leer las poesías de los antiguos poetas provenzales..."
Ver la Crusca Provenzale de un catalán, Antonio Bastero.
"che noi Catalani non abbiamo alcuna Gramatica, o Dizionario di questa Lingua, spiegata nel nostro Volgare; ma in questa materia, vaglia il vero, confesso, che siamo stati troppo trascurati, imperciocchè (quel che è peggio) nè pure abbiamo alcuna sorte di libri, o Autori, che per via di regole gramaticali, o altramenti ci ' nsegnino a ben parlare la nostra propia, e naturale, se non se ' l Donatus Provincialis, o chiunque sotto tal nome, e titolo, alludendo a quel Donato, ch' alla prim' arte degnò poner mano scrisse la breve, ed antica Gramatica Provenzale, o Catalana, ch' è tutt' uno, che manoscritta si conserva nella Libreria Medicea Laurenziana, e in Santa Maria del Fiore di Firenze, della quale fanno menzione, e si vagliono della sua autorità i primi Letterati d' Italia"
"IV. E riflettendo, che la Lingua Provenzale, è la stessa appunto, che la mia materna Catalana, come attestano parecchi Autori (11); e può conoscere ognuno, confrontando le parole, le maniere, i modi di dire, e lo stile delle nostre antiche Costituzioni di Catalogna, esistenti nella Biblioteca Barberina, cogli antichi Statuti di Provenza, che si trovano nella Libreria Casanattense; e come anche più agevolmente riconoscerà il Lettore dalla lettera, che per questo effetto ho estratta dalla Storia, e Cronica di Provenza di Cesare di Nostradama (12: Part. 6. fogl. 606. e 626.), scritta da Renato d' Angiò Re di Napoli il decimosesto, e Conte di Provenza il ventunesimo nell' anno 1468. en son bon, & franc Catalan Provenzal, come dice l' istesso Nostradama (13: Nel luogo citat. car. 626.), a Giovanni d' Angiò intitolato Duca di Calavria suo figlio primogenito, e Generale dell' Armata Franzese, e Provenzale, che allora si trovava ne' confini di Catalogna; (benchè nel detto anno, anzi ventisei anni prima, fosse già il suddetto Conte scaduto dalla Reggia di Napoli, avendo prevaluto il partito, e il valore delle armi de i Catalani, e degli Aragonesi contro degli Angioini, ed essendo in essa rimasto trionfante, e coronato sino dal 1442. il Re Alfonso il II (N. E: V), d' Aragona, e il I. di Napoli (14 - Scipione Mazzella nel suo Catalogo de' Re di Napoli, Angioini, Aragonesi, Castigliani, ed Austriaci. -, cognominato il Magnanimo) la qual lettera ho qui trascritta con la medesima ortografia, che nella predetta Istoria si legge del seguente tenore; Illustrissimo, e carissimo Duch, primogenit, Governador, e Loctenent general nostre: Nos com saben (sabeu) en los dies passats avens consideratiò als bons servicis, e merits del noble, e amat conseiller nostre Mossen Barthomeu Gary, l' y donam perpetualment en feu honorat segon costum de Cathalunia, per à el, e à sos fils emperò mascles de legitim matrimoni procreadòs lo Viscomtat de Bas, que ez prop las montanyas de Ampurdà, e certs castels, e altres coses que tenia en las parts de Ozona Joan de Cabrera, à nos inobedient, e rebelle, segon aquestes, e altres coses largament poreu veure en unas lettras patens à vous, e à altres dressades lou dia present dades. "
"VI. E riflettendo inoltre, che la Contea di Catalogna, ha dato più tosto questa nostra lingua alla Provenza, che da essa Provenza ricevutala, siccome l' ha donata a i Regni di Valenza, Majorca, Minorca, Sardigna (16), Murzia (17), ed altri (18): Si perchè i nostri Conti di Barzellona furono per lungo tempo sovrani del Contado di Provenza (19), sotto ' l comando de' quali cominciarono in essa Contea a fiorire i Poeti (20), e nel medesimo tempo, quei popoli, colla pratica, e soggiorno della Corte Catalana pulirono il lor dialetto, e di nobili, e cortigiani abbigliamenti a uso di Barcellona, il resero molto vago, e dovizioso (21); ed all' incontro finita in quella Contea la descendenza de l' alta stirpe d' Aragone antica, ovvero de' Serenissimi Conti Catalani, per morte del quinto, ed ultimo Ramondo Beringhieri, e succeduti ad essi gli Angioini, cominciò a declinare in quelle parti la poesia (22); anzi la stessa lingua, estinto che fu in Provenza il Real sangue di Catalogna, e sottratto per così dire, il latte, che la nutriva, venne a poco a poco mancando, e dileguandosi da quelle Contrade, come affermano Filippo, e Jacopo Giunti (23). E come anche per l' autorità del sopra nominato Cesare di Nostradama, il quale parlando nella sua citata Istoria di Provenza (24: Part. 5. fogl. 540.), della carica di Veguer (cioè Bargello) della Città di Marsiglia, la qual carica, come egli dice, se souloit donner par grand honneur à des plus êlevez Gentilommes & mieux qualifiez du païs, che così pure si praticava in Barcellona mia Patria, e nell' altre Città del Principato negli andati secoli; dopo aver addotta la formula del giuramento, che in Lingua Provenzale, o vero Catalana prestava esso Veguer nel suo nuovo ingresso in detto posto, in presenza de i Consoli della Città costringendolo ad osservare gli antichi loro statuti, e privilegi, la qual formula trascrive à fin qu' on voye (dice egli) avec quelles protestations, & ceremonies ils estoient anciennement receus en cête charge, soggiunge immediatamente queste parole:"
Serments de 842:
"IV. E riflettendo, che la Lingua Provenzale, è la stessa appunto, che la mia materna Catalana, come attestano parecchi Autori (11); e può conoscere ognuno, confrontando le parole, le maniere, i modi di dire, e lo stile delle nostre antiche Costituzioni di Catalogna, esistenti nella Biblioteca Barberina, cogli antichi Statuti di Provenza, che si trovano nella Libreria Casanattense; e come anche più agevolmente riconoscerà il Lettore dalla lettera, che per questo effetto ho estratta dalla Storia, e Cronica di Provenza di Cesare di Nostradama (12: Part. 6. fogl. 606. e 626.), scritta da Renato d' Angiò Re di Napoli il decimosesto, e Conte di Provenza il ventunesimo nell' anno 1468. en son bon, & franc Catalan Provenzal, come dice l' istesso Nostradama (13: Nel luogo citat. car. 626.), a Giovanni d' Angiò intitolato Duca di Calavria suo figlio primogenito, e Generale dell' Armata Franzese, e Provenzale, che allora si trovava ne' confini di Catalogna; (benchè nel detto anno, anzi ventisei anni prima, fosse già il suddetto Conte scaduto dalla Reggia di Napoli, avendo prevaluto il partito, e il valore delle armi de i Catalani, e degli Aragonesi contro degli Angioini, ed essendo in essa rimasto trionfante, e coronato sino dal 1442. il Re Alfonso il II (N. E: V), d' Aragona, e il I. di Napoli (14 - Scipione Mazzella nel suo Catalogo de' Re di Napoli, Angioini, Aragonesi, Castigliani, ed Austriaci. -, cognominato il Magnanimo) la qual lettera ho qui trascritta con la medesima ortografia, che nella predetta Istoria si legge del seguente tenore; Illustrissimo, e carissimo Duch, primogenit, Governador, e Loctenent general nostre: Nos com saben (sabeu) en los dies passats avens consideratiò als bons servicis, e merits del noble, e amat conseiller nostre Mossen Barthomeu Gary, l' y donam perpetualment en feu honorat segon costum de Cathalunia, per à el, e à sos fils emperò mascles de legitim matrimoni procreadòs lo Viscomtat de Bas, que ez prop las montanyas de Ampurdà, e certs castels, e altres coses que tenia en las parts de Ozona Joan de Cabrera, à nos inobedient, e rebelle, segon aquestes, e altres coses largament poreu veure en unas lettras patens à vous, e à altres dressades lou dia present dades. "
"VI. E riflettendo inoltre, che la Contea di Catalogna, ha dato più tosto questa nostra lingua alla Provenza, che da essa Provenza ricevutala, siccome l' ha donata a i Regni di Valenza, Majorca, Minorca, Sardigna (16), Murzia (17), ed altri (18): Si perchè i nostri Conti di Barzellona furono per lungo tempo sovrani del Contado di Provenza (19), sotto ' l comando de' quali cominciarono in essa Contea a fiorire i Poeti (20), e nel medesimo tempo, quei popoli, colla pratica, e soggiorno della Corte Catalana pulirono il lor dialetto, e di nobili, e cortigiani abbigliamenti a uso di Barcellona, il resero molto vago, e dovizioso (21); ed all' incontro finita in quella Contea la descendenza de l' alta stirpe d' Aragone antica, ovvero de' Serenissimi Conti Catalani, per morte del quinto, ed ultimo Ramondo Beringhieri, e succeduti ad essi gli Angioini, cominciò a declinare in quelle parti la poesia (22); anzi la stessa lingua, estinto che fu in Provenza il Real sangue di Catalogna, e sottratto per così dire, il latte, che la nutriva, venne a poco a poco mancando, e dileguandosi da quelle Contrade, come affermano Filippo, e Jacopo Giunti (23). E come anche per l' autorità del sopra nominato Cesare di Nostradama, il quale parlando nella sua citata Istoria di Provenza (24: Part. 5. fogl. 540.), della carica di Veguer (cioè Bargello) della Città di Marsiglia, la qual carica, come egli dice, se souloit donner par grand honneur à des plus êlevez Gentilommes & mieux qualifiez du païs, che così pure si praticava in Barcellona mia Patria, e nell' altre Città del Principato negli andati secoli; dopo aver addotta la formula del giuramento, che in Lingua Provenzale, o vero Catalana prestava esso Veguer nel suo nuovo ingresso in detto posto, in presenza de i Consoli della Città costringendolo ad osservare gli antichi loro statuti, e privilegi, la qual formula trascrive à fin qu' on voye (dice egli) avec quelles protestations, & ceremonies ils estoient anciennement receus en cête charge, soggiunge immediatamente queste parole:"
Serments de 842:
Llibre de Bernardino Gómez Miedes sobre lo Rey Iayme I:
Por
tanto me pareció no era justo que tales y tan señalados hechos, que
hasta aquí la historia escrita por el mismo Rey, y por los de su
tiempo tenían como encerrados debajo su corta lengua Lemosina,
dejasen de comunicarse a las gentes, y por ser las dos más
extendidas y comunicables lenguas la Latina y Castellana escribirlos
en ellas.
/
nuestra Señora del
Puig (que en lengua Lemosina quiere decir "monte pequeño",)
//
..a causa de la
invención de la sábana que puso por pendón, que en lengua Lemosina
se llama llansol, fue de allí adelante llamado el caballero del
Llansol..
//
hallado en la
conquista del Reyno, y entrada de la ciudad, se tuvieron por muy
agraviados de que los fueros y leyes de Valencia se escribiesen en
lengua Catalana, o Limosina, tan obscura y grosera que fuera harto
mejor en la Latina, o al menos Aragonesa.
//
Y por ser el Rey, no
sólo fundador de la ciudad, pero de sus leyes y fueros, quiso que se escribiesen en su propria lengua materna, que fue la Limosina,como se hablaba en Cataluña. La cual tuvo su origen en la ciudad de
Limoges en Francia, y era común para toda la Guiayna:
//
A
los cuales pareció entre otras cosas, que era necesario para tomar
esta guerra de propósito enviar por un muy grande instrumento de
guerra, como Trabuco, que estaba en Huesca, al cual llama el Rey en
su historia Foneuol, (fonévol) vocablo catalan Limosin, que quiere decir honda, o
ballestera para tirar piedras muy gruesas: semejante al que
antiguamente en tiempo de los Romanos, (como lo refiere Tito
Livio) usó el cónsul Marco Régulo en
África, yendo en la guerra contra los Carthagineses donde para
matar una grandísima y desemejada serpiente que estaba cerca de
donde asentara su Real, la cual no sólo cogía los hombres y vivos se los tragaba, pero aun con sólo el huelgo, o aliento los inficionaua
y se morían: usó pues de este instrumento y machina,
encarándola de lejos hacia donde la fiera estaba, y más se
descubría...
Ángel Hernández Mostajo, Heraldo, eso es castellano ?
Aixó u va escriure la coordinadora de Primaria de la "Escola Guinovart", y té lo títul de mestra, magisterio.
https://agora.xtec.cat/ceipjosepguinovart/
Ángel Hernández Mostajo, Zaragoza, Heraldo, eso es castellano ?
http://www.aragonradio.es/podcast/tag/angel-hernandez-mostajo
https://www.elperiodicodearagon.com/noticias/escenarios/hispanoamerica-dando-bano-lexico_106326.html
lunes, 21 de enero de 2019
El "Vocabulario valenciano" del catalán Rosanes
El "Vocabulario valenciano" del catalán Rosanes
Ricart García Moya
software Valencia El Vocabulario Valenciano Del Catalán Rosanes
Es falso que la castellanización de los valencianos se produjera antes del XIX, salvo en el funcionariado y capas dirigentes; el pueblo llano, en tiempos de Bernat y Baldoví, era incapaz de hablar correctamente el castellano.
La implantación sistemática fue iniciada hacia el 1869 por Miguel Rosanes, un catalán de Vic destinado al Reino y que se propuso enseñar la lengua de Cervantes a quienes no conocían más idioma que el valenciano. Según Rosanes, nombrado director de la Escuela Superior de Sueca, era empresa titánica: Es preciso tocarlo prácticamente para formarse una idea del ímprobo trabajo que esto ocasiona. Cuando tomamos nosotros posesión de la escuela que dirigimos, no hubo entre cincuenta niños mayores de 9 años uno solo que supiese el significado de la palabra ceniza. Dios sabe lo que esto nos desalentó (Rosanes: Miscelánea, 1864, p.78). El pedagogo catalán, tenaz, optó por publicar un Vocabulario valenciano-castellano destinado a introducir la gramática de Castilla en las poblaciones en que no se habla la lengua castellana. El manual tuvo éxito entre los maestros, usándose para la inmersión en castellano con el método de sustituir la voz valenciana por la castellana, táctica perfeccionada en el 2001 por la Generalidad, al prohibir vocablos valencianos e imponer los catalanes y castellanos.
Entre los sustantivos que recoge Rosanes hay algunos tan patrimoniales como chulla (catalán xulla), garró (cat. turmell), melic (cat. llombrígol), y bascoll (cat. clatell); el derivado bascollá (cat. clatellada), recurso pedagógico contundente, también lo incluye Rosanes. Aparte de estos vocablos figuran otros que son idénticos en valenciano y castellano, realidad que la inmersión rechaza sin razonar que la lengua valenciana posee tantas voces similares al catalán como al castellano, y que muchas de ellas surgieron en el Reino antes que en la meseta o en el condado levantino.
Así, la primera documentación de bufanda en castellano es de 1782, mientras que el bufanda recogido por Rosanes estaba arraigado en el idioma valenciano del XVIII: eixes bufandes tan fines (Coloqui de Pepo Canelles), de donde pasaría al catalán. En la lista de Rosanes encontramos al monstruito regnícola butoni, equivalente al coco castellano y papu catalán. Los filólogos catalanes (los que leen país donde dice Reino), han tratado de restarle encanto y misterio al atribuirle la etimología bu + Toni, sin documentación que la sustente. Parece que la forma buto era la más antigua, pues Escrig da preferencia a butoni (1871), y también existía un juego infantil con tal denominación: asó es chuar al butoni (El Mole, 1840, p. 10). Por los mismos años en que Rosanes redactaba su vocabulario en Sueca, el suecano Baldoví ofrecía en verso la sinonimia entre fantasma y butoni:
vore que les femelles / fasen també la fantasma (...)
anar fentmos el butoni /
a deshora de la nit (Pascualo y Visanteta, 1861, p.6).
Después de 1707 el idioma valenciano seguía tan vivo como en el 1400, asimilando voces foráneas y modelando morfologías propias, hasta tal punto que la lengua valenciana moderna apenas tiene parecido con el romance de 1238. Hay léxico que suponemos ancestral y no se remonta a más de dos siglos. Así, en la frase: Chiqueta, tingau trellat y no mos trenqueu eixos butacóns, usamos el sustantivo butacóns incorporado hacia el 1850, procedente del malsonante venezolano putaka. De igual modo, butoni o buto pudo estar asociado al valenciano bulto, imagen humana borrosa; o podría emparentar con el italianismo busto en su antigua acepción de cadáver (la generalización fonética y gráfica de sinyor, sinyora en el valenciano del XIX estaría vinculada al italiano signare, y plurales similares al italiano buoni podrían generar tras peripecias orales formas populares como butoni). El enmudecimiento consonántico también era decisivo en la creación de voces, de busto a buto pudo suceder como en el cambio morfológico y semántico del antiguo tresllat (traslado) al moderno trellat (cat. seny).
Los catalanes ambiciosos -los que llaman catalán a Sorolla (a Ignacio Sorolla Vidal no, a Joaquín Sorolla) en la Gran Enc. Catalana-, han conseguido que nos avergoncemos del idioma valenciano del XIX, producto de la evolución independiente del mismo. En 1860 pudo constatar Rosanes que se mantenía la singularidad idiomática respetada incluso por Jaime I, cuando ordenó arromançar los Furs sin supeditarlos a ninguna lengua foránea.
https://www.levante-emv.com/opinion/2012/05/29/rigor-cientifico-frente-descalificacion-barbarie/908888.html
El vocabulario del aséptico Rosanes captó esta preciosa morfología valenciana: bol chaca (cat. butxaca); cona de cansalá (cat. cotna de cansalada),y robell o yema de huevo (cat. rovell), cultismo que enlaza con el étimo latino robigo, con bilabial (Ros, 1764). Frases como rama chiqueta que escomensa a arrailar (p.46) o Borracho, choquet de chica (p.59), erizarían pelusas de madame Parrús e incluso las de monsieur Tarancón.
Junto a voces surgidas después del 1238 (butacó, arbelló, bolchaca, butoni...), el idioma valenciano que recogió Rosanes contaba con joyas mozárabes como cuallá (p.16), / collá, collada / derivada del latín coagulare. Hasta los filólogos más rateros admiten la valencianía del mozarabismo: no tengo pruebas de que el valenciano quallar se haya empleado en catalán (Corominas, DCECH); y Gulsoy y Cahner también lo reconocen:
La gran vitalidad de quallar en Valencia se deberá al hecho de que allí haya continuado como mozarabismo (DECLLC,1992). No les queda más remedio que aceptarlo ante la documentación medieval en valenciano donde aparece quallar y derivados. Como es sabido, por la ruta valenciana a Lérida fue filtrándose nuestro idioma, aunque Gulsoy observó que, todavía en el siglo XVII, quallar debía ser poco conocido en el Principado (DECLLC). Ahora ya lo conocen y utilizan.
Una reflexión: si del latín coagulare -pasando por los mozárabes quwalyo, qalyo de 1106- , los valencianos creamos la familia semántica de quallar:
¿qué autoridad tienen los rosanes de Ascensión -sean mallorquines como Hauf o fanáticos catalaneros como Verónica Cantó (AVL)-, para impedir que sigamos escribiendo y pronunciando la apócope en quallá o cuallá?
Tal morfología fue creada en el Reino por valencianos libres, no castellanizados ni supeditados a ninguna gestapo del IEC. Otra cosa es que toleremos que los catalanes sigan usando el arcaísmo valenciano quallada (que les prestamos gustosamente), pero nosotros tenemos derecho a apocopar sílabas y plasmarlo gráficamente sin sufrir imposiciones de los plomizos vecinos.
Y una duda bizantina: ¿por qué el suecano Joan Fuster, tan perspicaz y erudito, no se enteró de que el Reino -incluida Sueca- fue castellanizado a rajatabla por el catalán Rosanes en 1864?
Diario de Valencia 16 de Diciembre de 2001
Ricart García Moya
software Valencia El Vocabulario Valenciano Del Catalán Rosanes
Es falso que la castellanización de los valencianos se produjera antes del XIX, salvo en el funcionariado y capas dirigentes; el pueblo llano, en tiempos de Bernat y Baldoví, era incapaz de hablar correctamente el castellano.
La implantación sistemática fue iniciada hacia el 1869 por Miguel Rosanes, un catalán de Vic destinado al Reino y que se propuso enseñar la lengua de Cervantes a quienes no conocían más idioma que el valenciano. Según Rosanes, nombrado director de la Escuela Superior de Sueca, era empresa titánica: Es preciso tocarlo prácticamente para formarse una idea del ímprobo trabajo que esto ocasiona. Cuando tomamos nosotros posesión de la escuela que dirigimos, no hubo entre cincuenta niños mayores de 9 años uno solo que supiese el significado de la palabra ceniza. Dios sabe lo que esto nos desalentó (Rosanes: Miscelánea, 1864, p.78). El pedagogo catalán, tenaz, optó por publicar un Vocabulario valenciano-castellano destinado a introducir la gramática de Castilla en las poblaciones en que no se habla la lengua castellana. El manual tuvo éxito entre los maestros, usándose para la inmersión en castellano con el método de sustituir la voz valenciana por la castellana, táctica perfeccionada en el 2001 por la Generalidad, al prohibir vocablos valencianos e imponer los catalanes y castellanos.
Entre los sustantivos que recoge Rosanes hay algunos tan patrimoniales como chulla (catalán xulla), garró (cat. turmell), melic (cat. llombrígol), y bascoll (cat. clatell); el derivado bascollá (cat. clatellada), recurso pedagógico contundente, también lo incluye Rosanes. Aparte de estos vocablos figuran otros que son idénticos en valenciano y castellano, realidad que la inmersión rechaza sin razonar que la lengua valenciana posee tantas voces similares al catalán como al castellano, y que muchas de ellas surgieron en el Reino antes que en la meseta o en el condado levantino.
Así, la primera documentación de bufanda en castellano es de 1782, mientras que el bufanda recogido por Rosanes estaba arraigado en el idioma valenciano del XVIII: eixes bufandes tan fines (Coloqui de Pepo Canelles), de donde pasaría al catalán. En la lista de Rosanes encontramos al monstruito regnícola butoni, equivalente al coco castellano y papu catalán. Los filólogos catalanes (los que leen país donde dice Reino), han tratado de restarle encanto y misterio al atribuirle la etimología bu + Toni, sin documentación que la sustente. Parece que la forma buto era la más antigua, pues Escrig da preferencia a butoni (1871), y también existía un juego infantil con tal denominación: asó es chuar al butoni (El Mole, 1840, p. 10). Por los mismos años en que Rosanes redactaba su vocabulario en Sueca, el suecano Baldoví ofrecía en verso la sinonimia entre fantasma y butoni:
vore que les femelles / fasen també la fantasma (...)
anar fentmos el butoni /
a deshora de la nit (Pascualo y Visanteta, 1861, p.6).
Después de 1707 el idioma valenciano seguía tan vivo como en el 1400, asimilando voces foráneas y modelando morfologías propias, hasta tal punto que la lengua valenciana moderna apenas tiene parecido con el romance de 1238. Hay léxico que suponemos ancestral y no se remonta a más de dos siglos. Así, en la frase: Chiqueta, tingau trellat y no mos trenqueu eixos butacóns, usamos el sustantivo butacóns incorporado hacia el 1850, procedente del malsonante venezolano putaka. De igual modo, butoni o buto pudo estar asociado al valenciano bulto, imagen humana borrosa; o podría emparentar con el italianismo busto en su antigua acepción de cadáver (la generalización fonética y gráfica de sinyor, sinyora en el valenciano del XIX estaría vinculada al italiano signare, y plurales similares al italiano buoni podrían generar tras peripecias orales formas populares como butoni). El enmudecimiento consonántico también era decisivo en la creación de voces, de busto a buto pudo suceder como en el cambio morfológico y semántico del antiguo tresllat (traslado) al moderno trellat (cat. seny).
Arturo Quintana Font, filólogo catalán y catalanista ambicioso |
Los catalanes ambiciosos -los que llaman catalán a Sorolla (a Ignacio Sorolla Vidal no, a Joaquín Sorolla) en la Gran Enc. Catalana-, han conseguido que nos avergoncemos del idioma valenciano del XIX, producto de la evolución independiente del mismo. En 1860 pudo constatar Rosanes que se mantenía la singularidad idiomática respetada incluso por Jaime I, cuando ordenó arromançar los Furs sin supeditarlos a ninguna lengua foránea.
https://www.levante-emv.com/opinion/2012/05/29/rigor-cientifico-frente-descalificacion-barbarie/908888.html
El vocabulario del aséptico Rosanes captó esta preciosa morfología valenciana: bol chaca (cat. butxaca); cona de cansalá (cat. cotna de cansalada),y robell o yema de huevo (cat. rovell), cultismo que enlaza con el étimo latino robigo, con bilabial (Ros, 1764). Frases como rama chiqueta que escomensa a arrailar (p.46) o Borracho, choquet de chica (p.59), erizarían pelusas de madame Parrús e incluso las de monsieur Tarancón.
Junto a voces surgidas después del 1238 (butacó, arbelló, bolchaca, butoni...), el idioma valenciano que recogió Rosanes contaba con joyas mozárabes como cuallá (p.16), / collá, collada / derivada del latín coagulare. Hasta los filólogos más rateros admiten la valencianía del mozarabismo: no tengo pruebas de que el valenciano quallar se haya empleado en catalán (Corominas, DCECH); y Gulsoy y Cahner también lo reconocen:
La gran vitalidad de quallar en Valencia se deberá al hecho de que allí haya continuado como mozarabismo (DECLLC,1992). No les queda más remedio que aceptarlo ante la documentación medieval en valenciano donde aparece quallar y derivados. Como es sabido, por la ruta valenciana a Lérida fue filtrándose nuestro idioma, aunque Gulsoy observó que, todavía en el siglo XVII, quallar debía ser poco conocido en el Principado (DECLLC). Ahora ya lo conocen y utilizan.
Una reflexión: si del latín coagulare -pasando por los mozárabes quwalyo, qalyo de 1106- , los valencianos creamos la familia semántica de quallar:
¿qué autoridad tienen los rosanes de Ascensión -sean mallorquines como Hauf o fanáticos catalaneros como Verónica Cantó (AVL)-, para impedir que sigamos escribiendo y pronunciando la apócope en quallá o cuallá?
Tal morfología fue creada en el Reino por valencianos libres, no castellanizados ni supeditados a ninguna gestapo del IEC. Otra cosa es que toleremos que los catalanes sigan usando el arcaísmo valenciano quallada (que les prestamos gustosamente), pero nosotros tenemos derecho a apocopar sílabas y plasmarlo gráficamente sin sufrir imposiciones de los plomizos vecinos.
Y una duda bizantina: ¿por qué el suecano Joan Fuster, tan perspicaz y erudito, no se enteró de que el Reino -incluida Sueca- fue castellanizado a rajatabla por el catalán Rosanes en 1864?
Diario de Valencia 16 de Diciembre de 2001
La chuleta y la Real Academia
La chuleta y la Real Academia
Ricardo García Moya
software valencià La Chuleta Y La Real Academia
La RAE limpia la lengua castellana, pero ensucia la valenciana. En la última edición del diccionario, las voces procedentes del idioma valenciano sufrieron una depuración política inspirada por académicos escorados al IEC (Moll, Margarit., Marsá, Vilanova, Gimferrer, Riquer, Colón, etc) La voz chuleta, por ejemplo, la acomodaron para clasificarla como préstamo del catalán al castellano; pero la documentación es diamantina.
En 1611, después de recorrer el Reino, el licenciado Covarrubias publicaba su Tesoro de la lengua con observaciones sobre voces que se filtraban al castellano. Así, de chulla advertía que es vocablo valenciano (Tesoro, a. 1611), siendo esta voz, y no hora, la que generaría chuleta, chuletada y chuletón.
Tras cuatro siglos, el DRAE embrolla silogísticamente la pertenencia de la palabra: Chuleta, del valenciano xulleta, derivado del catalán xulla, costilla» (DRAE, 1992).
Se supone que esta atribución, transmitida a millones de estudiantes, se apoya en fuentes que alteran la de 1611, pero no es así. Nadie de la RAE aporta autoridad alguna que asocie chuleta a otro vocablo que no sea el valenciano chulla. Los académicos se han limitado a copiar lo dictado por el
Institut d´Estudis Catalans y los politizados filólogos catalanes.
Corominas, cuya obra etimológica es núcleo del catalanismo idiomático, afirma: Chuleta deriva del catalán de Valencia xulleta, diminutivo de xulla (DCECH,1980).
En las neolatinas hispánicas, el trapicheo de una consonante establece fronteras, y es significativo que no diga dónde aparece xulleta o xulla en un texto valenciano. Corominas actúa como médium transmisor de conceptos idiomáticos y geopolíticos ocultos en la mente de personajes fallecidos. Gracias a este don parapsicológico, la documentación que dice Regne de Valencia e Comtat de Barcelona la transcribe como Principat de Catalunya i País Valenciá. De igual modo, como no le convence que Covarrubias afirmara que chulla es vocablo valenciano, el etimólogo catalán atraviesa mentalmente los cuatro siglos transcurridos y adivina que el licenciado, en realidad, quiso escribir xulla es vocablo catalán. La inmersión normaliza hasta cadáveres centenarios.
Sofista enredador, Corominas dice en esta época se empleaba en la capital valenciana la grafía ch. Al aludir a siglos tildados de decadentes por la inmersión, da a entender que existió una época áurea donde chulla se escribía xulla, acorde con la doctrina del IEC; pero es otra trampa que el sabio tiende al incauto lector.
La primera vez que se documenta chulla es en Valencia, en el Thesaurus de Pou (a. 1575), https://dialnet.unirioja.es/servlet/articulo?codigo=2797002 un gerundense que vino a estudiar a Valencia y aprendió lo que ahora está prohibido por la inmersión. Pou dejó en caracteres de imprenta la voz chulles junto a otras tan valencianas como allyoli (sic), chufes, chapes, taronges de Xátiva, chic, punches, etc.
En consecuencia, desechando versiones parapsicológicas, la primera documentación sobre la chulla (no xulla) la proporciona un catalán: Pou; y un castellano, Covarrubias; imparciales lingüistas que estudiaron el idioma valenciano y dejaron constancia impresa.
Como la mayoría de voces, chulla pertenecía a una familia descendiente del étimo latino vulgar absungia o exungia (grasa para untar ejes). De tal padre nacieron el antiguo portugués enxulha, el catalán ensunia o el castellano enxundia, usado por el Arcipreste de Hita. Significaban gordura o grasa del cerdo. / com lo sagí, ensaginada /
Del caótico romance surgieron otras variables modernas como la castellana enjundia, la italiana sugna y la occitana enjun, con la acepción de tocino o grasa de puerco. Entre todas las lenguas neolatinas, la valenciana creó la voz chulla con singularidad semántica, aparte de morfológica, al designar a las chuletas de cordero o ternera.
Adivinanza: ¿Cuál de todas las variables está prohibida y despreciada?
La valenciana, claro.
Pou opuso la valenciana chulla a la catalana carbonada y a la latina offella, por el deseo de presentar equivalencias entre valenciano, catalán y latín. La voz carbonada era castellana y catalana; pero en valenciano no tuvo excesiva aceptación, limitándose su polisemia a escasas y desagradables acepciones:
Carboná: cantidad grande de carbón, excremento de niños (Escrig,1871).
Respecto a la voz que nos interesa, Covarrubias fue concreto:
Chulla. Las costillas de carnero cortadas en piezas de dos en dos, que la gente pobre compra quando no tiene caudal para más. Es vocablo valenciano, y diéronsele del sonido que haze sobre las brasas quando se asa. (Tesoro,a.1611).
Covarrubias da la equivalencia exacta de costillas de cordero, mientras que Pou fue lacónico, factor que aprovechó Corominas para restar antigüedad a la acepción de chuleta, con la argucia de que Pou incluyó chulla en una llista de menjars preparats: DELLC). Como en el texto de Pou no hay más que una enumeración genérica, Corominas oculta lo que alteraría su trucada lista: "carn rustida, carn de cordero.... También sustituye el punto y aparte que separaba chulla y golosina por un punto y coma. Además, la traducción latina de Pou era flexible; p.e., traduce lo qui menja carn crua como omophagus. Es evidente que el latín offella aludía a las pequeñas chuletas de cordero, comida de pobres según Covarrubias. Tenían hueso (ya que Pou cita en la misma relación la cara sens ossos), y eran pequeñas comparadas con las chuletas de ternera que comían las clases pudientes.
La voz arraigó en idioma valenciano, como demuestra su inclusión en la paremiología, la chulla y la dona» (Galiana: Refrans, h.1760), figurando chulla en el diccionario de Lamarca (a. 1839) o en el vocabulario de Rosanes (a. 1864). Tampoco falta en el teatro del XIX: pa blanc y chulles (La tertulia de Colau,1866); bones chulles (Els microbios, 1884) Igual que el derivado: dos chulletes (Qui tinga cucs, 1855), una chulleta (La vanitat castigada, 1855). Resumiendo: chuleta y chuletón proceden de chulla; voz del idioma valenciano, no de la parapsicológica xulla catalana. La versión para engañar estudiantes que ofrece el DRAE pertenece al realismo fantástico, como los platillos volantes o el valencianismo de la alcaldesa Nolla. Por cierto, hoy me ha invitado mi amigo Moncho /NO SOC YO/ -catalanista y catalanizado hasta el esfínter-, pues el Ayuntamiento de Valencia le ha soltado dos kilos por una novela suya (en catalán, claro). Y no sé qué hacer con los 50 ejemplares, pagados por ustedes, del diario catalán Información que me sigue mandando la Generalidad ¿Empapelo mi WC? ¿Se los devuelvo a Tarancón?
Diario de Valencia 18 de Febrero de 2001
Ricardo García Moya
software valencià La Chuleta Y La Real Academia
La RAE limpia la lengua castellana, pero ensucia la valenciana. En la última edición del diccionario, las voces procedentes del idioma valenciano sufrieron una depuración política inspirada por académicos escorados al IEC (Moll, Margarit., Marsá, Vilanova, Gimferrer, Riquer, Colón, etc) La voz chuleta, por ejemplo, la acomodaron para clasificarla como préstamo del catalán al castellano; pero la documentación es diamantina.
En 1611, después de recorrer el Reino, el licenciado Covarrubias publicaba su Tesoro de la lengua con observaciones sobre voces que se filtraban al castellano. Así, de chulla advertía que es vocablo valenciano (Tesoro, a. 1611), siendo esta voz, y no hora, la que generaría chuleta, chuletada y chuletón.
Tras cuatro siglos, el DRAE embrolla silogísticamente la pertenencia de la palabra: Chuleta, del valenciano xulleta, derivado del catalán xulla, costilla» (DRAE, 1992).
Se supone que esta atribución, transmitida a millones de estudiantes, se apoya en fuentes que alteran la de 1611, pero no es así. Nadie de la RAE aporta autoridad alguna que asocie chuleta a otro vocablo que no sea el valenciano chulla. Los académicos se han limitado a copiar lo dictado por el
Institut d´Estudis Catalans y los politizados filólogos catalanes.
Corominas, cuya obra etimológica es núcleo del catalanismo idiomático, afirma: Chuleta deriva del catalán de Valencia xulleta, diminutivo de xulla (DCECH,1980).
En las neolatinas hispánicas, el trapicheo de una consonante establece fronteras, y es significativo que no diga dónde aparece xulleta o xulla en un texto valenciano. Corominas actúa como médium transmisor de conceptos idiomáticos y geopolíticos ocultos en la mente de personajes fallecidos. Gracias a este don parapsicológico, la documentación que dice Regne de Valencia e Comtat de Barcelona la transcribe como Principat de Catalunya i País Valenciá. De igual modo, como no le convence que Covarrubias afirmara que chulla es vocablo valenciano, el etimólogo catalán atraviesa mentalmente los cuatro siglos transcurridos y adivina que el licenciado, en realidad, quiso escribir xulla es vocablo catalán. La inmersión normaliza hasta cadáveres centenarios.
Sofista enredador, Corominas dice en esta época se empleaba en la capital valenciana la grafía ch. Al aludir a siglos tildados de decadentes por la inmersión, da a entender que existió una época áurea donde chulla se escribía xulla, acorde con la doctrina del IEC; pero es otra trampa que el sabio tiende al incauto lector.
La primera vez que se documenta chulla es en Valencia, en el Thesaurus de Pou (a. 1575), https://dialnet.unirioja.es/servlet/articulo?codigo=2797002 un gerundense que vino a estudiar a Valencia y aprendió lo que ahora está prohibido por la inmersión. Pou dejó en caracteres de imprenta la voz chulles junto a otras tan valencianas como allyoli (sic), chufes, chapes, taronges de Xátiva, chic, punches, etc.
En consecuencia, desechando versiones parapsicológicas, la primera documentación sobre la chulla (no xulla) la proporciona un catalán: Pou; y un castellano, Covarrubias; imparciales lingüistas que estudiaron el idioma valenciano y dejaron constancia impresa.
Como la mayoría de voces, chulla pertenecía a una familia descendiente del étimo latino vulgar absungia o exungia (grasa para untar ejes). De tal padre nacieron el antiguo portugués enxulha, el catalán ensunia o el castellano enxundia, usado por el Arcipreste de Hita. Significaban gordura o grasa del cerdo. / com lo sagí, ensaginada /
Del caótico romance surgieron otras variables modernas como la castellana enjundia, la italiana sugna y la occitana enjun, con la acepción de tocino o grasa de puerco. Entre todas las lenguas neolatinas, la valenciana creó la voz chulla con singularidad semántica, aparte de morfológica, al designar a las chuletas de cordero o ternera.
Adivinanza: ¿Cuál de todas las variables está prohibida y despreciada?
La valenciana, claro.
Pou opuso la valenciana chulla a la catalana carbonada y a la latina offella, por el deseo de presentar equivalencias entre valenciano, catalán y latín. La voz carbonada era castellana y catalana; pero en valenciano no tuvo excesiva aceptación, limitándose su polisemia a escasas y desagradables acepciones:
Carboná: cantidad grande de carbón, excremento de niños (Escrig,1871).
Respecto a la voz que nos interesa, Covarrubias fue concreto:
Chulla. Las costillas de carnero cortadas en piezas de dos en dos, que la gente pobre compra quando no tiene caudal para más. Es vocablo valenciano, y diéronsele del sonido que haze sobre las brasas quando se asa. (Tesoro,a.1611).
Covarrubias da la equivalencia exacta de costillas de cordero, mientras que Pou fue lacónico, factor que aprovechó Corominas para restar antigüedad a la acepción de chuleta, con la argucia de que Pou incluyó chulla en una llista de menjars preparats: DELLC). Como en el texto de Pou no hay más que una enumeración genérica, Corominas oculta lo que alteraría su trucada lista: "carn rustida, carn de cordero.... También sustituye el punto y aparte que separaba chulla y golosina por un punto y coma. Además, la traducción latina de Pou era flexible; p.e., traduce lo qui menja carn crua como omophagus. Es evidente que el latín offella aludía a las pequeñas chuletas de cordero, comida de pobres según Covarrubias. Tenían hueso (ya que Pou cita en la misma relación la cara sens ossos), y eran pequeñas comparadas con las chuletas de ternera que comían las clases pudientes.
La voz arraigó en idioma valenciano, como demuestra su inclusión en la paremiología, la chulla y la dona» (Galiana: Refrans, h.1760), figurando chulla en el diccionario de Lamarca (a. 1839) o en el vocabulario de Rosanes (a. 1864). Tampoco falta en el teatro del XIX: pa blanc y chulles (La tertulia de Colau,1866); bones chulles (Els microbios, 1884) Igual que el derivado: dos chulletes (Qui tinga cucs, 1855), una chulleta (La vanitat castigada, 1855). Resumiendo: chuleta y chuletón proceden de chulla; voz del idioma valenciano, no de la parapsicológica xulla catalana. La versión para engañar estudiantes que ofrece el DRAE pertenece al realismo fantástico, como los platillos volantes o el valencianismo de la alcaldesa Nolla. Por cierto, hoy me ha invitado mi amigo Moncho /NO SOC YO/ -catalanista y catalanizado hasta el esfínter-, pues el Ayuntamiento de Valencia le ha soltado dos kilos por una novela suya (en catalán, claro). Y no sé qué hacer con los 50 ejemplares, pagados por ustedes, del diario catalán Información que me sigue mandando la Generalidad ¿Empapelo mi WC? ¿Se los devuelvo a Tarancón?
Diario de Valencia 18 de Febrero de 2001
mallorquín - castellano - latín , Juan José Amengual
Nuevo diccionario mallorquín - castellano - latín
Don Juan José Amengual
Don Juan José Amengual
Juan José Amengual
https://ca.wikipedia.org/wiki/Joan_Josep_Amengual_i_Reus
De la "Gramática de la Lengua Mallorquina" de Juan José Amengual, primera edición en 1835 y 2ª edición en 1872, reeditada en 1995 bajo el título de "Gramàtica de sa Llengo Mallorquina", reproducimos, en homenaje al autor, el apartado dedicado a las figuras de construcción. (Tanto en castellano como en mallorquín conservamos la ortografía de la edición de 1872) . Figuras de construcción Las figuras de construcción son hipérbaton, elipsis, pleonasmo y silepsis. Hipérbaton invierte el órden de las palabras, como: es seus alàba càda cuàl, los suyos alaba cada cual. El pronombre séus, suyos, es el complemento del verbo alabar, y este del pronombre càda cuàl; de modo que en construcción natural debiera decirse: càda cuàl alàb' es séus, cada cual alaba á los suyos. Elipsis callam palabras esenciales á la integridad gramatical; pero no al sentido de la expresión, como: bònas tàrdas, buenas tardes, donde se calla el verbo tenir, tener, y un pronombre personal; pero se sobrentienden, pues equivale á decir: buenas tardes tenga V., etc. Pleonasmo aumenta palabras innecesarias al sentido de la proposición; no pero superfluas á su valor, como: digues m'ho à mi qui'u hé vist p'es méus uys, dímelo á mí que lo he visto por mis ojos; donde bastaba decir: dímelo que lo he visto, y así las palabras á mí y por mis ojos no son necesarias, pero tampoco superfluas porque aumentan la fuerza de la expresión. Silépsis falta á la concordancia gramatical; pero no á la concordancia del sentido, como: sa Magestàd es piadós, su Magestad es piadoso, donde el femenino Magestàd concuerda con el masculino piadoso; pero como Magestàd puede valer el tratamiento que se le da á un rey, el sentido del masculino piadoso concuerda con el sentido del masculino rey.
Juan José Amengual: GRAMÁTICA DE LA LENGUA MALLORQUINA, 2ª edición, Palma, 1872, págs 201-202
sábado, 19 de enero de 2019
un dialecte provensal que no teníe literatura
Ñabíe una vegada un dialecte provensal que no teníe literatura y va tindre que apropiás de la literatura de les llengües veínes per a tíndrela.
John Duncan Craig; Miejour; or, provençal legend, life, language and literature, in the Land of the Felibre, 1877
https://itunes.apple.com/mt/book/miejour-or-provencal-legend/id471717889?mt=11
http://www.eyragues.org/joseph-roumanille-us.php
https://books.google.com/books/about/Miejour_or_proven%C3%A7al_legend_life_langua.html
Índice
Chap Page 18 Fort Bacon
| 110 |
Fifty Years After
| 113 |
Lou Mot de Santo Claro
| 121 |
Friends Abroad
| 125 |
French Pastors
| 133 |
Neath the Olive Trees
| 144 |
La Cabro de Moussu Sequin
| 158 |
25 The Aubergè of the Esterel 26 The Hunter of the Esterel
| 177 |
The Grand Pine
| 293 |
Le Montagne des lncourdoules
| 304 |
The Golden Goat of Les Incourdoules
| 308 |
Taragnigna
| 311 |
Rosette at Home
| 320 |
Chap Page 48 The Treasure Seekers
| 326 |
The Cabanoun on Fire
| 334 |
Nice and the Var
| 342 |
The Vernons and De Ravenels
| 182 |
A Strange Visitor
| 188 |
The Struggle for Life
| 194 |
Rescued
| 200 |
3l A Sinister Rendezvous
| 204 |
Raoul to the Rescue
| 210 |
The Spanish Pedlar
| 215 |
The Monk
| 222 |
Victory
| 227 |
Isle St Marguerite
| 235 |
From Cannes to Agay
| 245 |
The Roman Quarries of Agay
| 251 |
About Insects and Scorpions
| 262 |
Paraoulos de Vouloun
| 268 |
4l Orange Flowers
| 273 |
The Tenant of Villa Bertrand
| 284 |
Villa Franca
| 350 |
Thunny Fishing 4
| 355 |
The Wicked Host
| 365 |
Horrors of Monte Carlo
| 369 |
The Dying Student
| 374 |
Mentone
| 381 |
Origin of the Provençal Language
| 390 |
Provengal Literature of the PastIts Predisposing Influences
| 401 |
The Troubadours
| 408 |
The Crusade against the Albigenses
| 415 |
The Troubadour in Catalonia s 4
| 423 |
62 The Provençal Troubadours of the Seventeenth and Eight eenth Centuries
| 427 |
The Troubadours of our Day
| 432 |
Provençal Word Hunting 448
| 470 |
At Avignon with the Felibrige
| 476 |
Lou Tian 4
| 484 |